CITAZIONE (_CruX_XurC_ @ 11/1/2024, 10:49)
Fammi capire, tutti questi imprenditori sono dei pazzi/dei filantropi/non hanno la tua conoscenza e quindi entrano nel pallone così, per gettare denaro?
Davvero, mi interessa.
Crux non puoi ridurre il tutto all’alternativa o sei un mecenate o sei uno speculatore. C’è molta più complessità rispetto a questa dicotomia. Approfitto della pausa pranzo e provo ad esporre il mio punto di vista ™ anche se premetto che sarò molto lungo: non ho il dono della sintesi fulminante e l’argomento non si presta nemmeno. Però cerco di mettere i capoversi 😊
Che nel calcio italiano degli ultimi 20 anni i proprietari non abbiano fatto soldi, ma piuttosto ne abbiano persi parecchi, lo ha già ben argomentato e dettagliato CUS. Che poi qualche tragattino alla Cellino, Preziosi o Gaucci si sia preso o si prenda ancora qualche stecca in nero sottobanco, non c’entra con la sostenibilità di un modello di business che ad oggi non c’è mai stata. Se non bastano gli esempi di Cus, prendete elenco delle 40 squadre tra A e B e guardate la storia dei passaggi di proprietà degli ultimi 20 anni. Nel 90% dei casi sono passaggi in situazioni distressed, dove oltre a non avere generato profitti durante la gestione, i proprietari sono stati costretti a svendere l’asset perché stavano saltando per aria. Forse solo l’Udinese dei Pozzo, l’Atalanta dei Percassi e l’Empoli dei Corsi sono stati sostenibili negli ultimi 20 anni, ma sono 3 casi – con specificità peculiari – su più di 100 proprietà avvicendatesi tra A e B. Gli imprenditori sono stati nel calcio come nell’editoria. Per stare in un salotto buono, per visibilità, per connessioni, per avere opportunità di fare altri business, alcuni pure per passione, ma non hanno fatto i soldi diretti con il calcio. Come dice CUS, basta favole su questo.
Questo non vuol dire che il calcio – a livello globale - non possa essere un business e non lo stia diventando sempre più.
Ma è un business tremendamente complicato, globale e in grande evoluzione ed incertezza. Dove qualcuno farà tanti soldi, ma tanti altri si faranno molto male.
Il punto da cui partire è che negli ultimi 20 anni, il calcio si è affermato come lo sport assolutamente dominante. Rispetto agli anni Duemila, oggi oltre 800 milioni di persone in più si dichiarano tifosi o appassionati.
Nel 2022, 4,5 miliardi (!) su 8 miliardi di esseri umani si dichiarano interessati (poco o tanto) al calcio, con un gap quantico rispetto agli altri sport. Il calcio è dominante e sta diventando sempre più dominante su tutti gli altri sport e questo è un fenomeno addirittura in accelerazione. Sarà sempre più grande. E’ l’unica piattaforma davvero globale per un brand: da Europa ad Asia, da Australia ad America o Africa. Nessuno è globale come il football. La potenzialità dei grandi team e dei grandi campioni a livello di awareness globale è unica e dalle potenzialità ancora inesplorate (Unify, la piattaforma – teorica – della al momento teorica superlega, ragiona su un modello di streaming globale free per il consumatore, sostenuto dai brand. Sembra fantascienza ma pensate ad una piattaforma con qualche miliardo di abbonati gratis…modello social network..).
Eppure, paradosso dei paradossi, il calcio non ha ancora – a livello globale – un modello di business sostenibile per i team professionistici, a nessuna latitudine.
Mentre gli altri grandi sport professionistici, cresciuti sul modello USA - NBA, NFL, MLB, NHL, etc - permettono agli owner di guadagnare soldi. E tanti. Se compri i Dallas Cowboys, spendi un botto come franchigia (7 milardi di valutazione), ma i Dallas Cowboys ogni anno ti assicurano più di un miliardo di ricavi, con 500 milioni di dollari di profitto!
Se hai una squadra di calcio fare profitto non è invece la norma. Non solo in Italia, ma in tutta Europa ed in Inghilterra le squadre sono al 90% in perdita operativa e richiedono un costante apporto di capitale. Il Bayern di turno è l’eccezione che conferma la regola. Basta guardare i conti della Premier League, di Real, Barca, PSG, etc.
Come mai questo paradosso?
La principale ragione sta nello “spirito” di questo gioco magico, nato in Inghilterra e sviluppatosi in Europa.
Il calcio ha avuto da subito una fortissima identificazione con la città in cui si è sviluppato. 100 città, 100 squadre. Support your local team in Inghilterra è un concetto estremamente radicato. Ci sono club di terza o quarta serie che fanno 20.000 spettatori. Ma basta guardare a casa nostra. Soltanto in Emilia abbiamo Parma, Bologna, Modena, Spal, Merda, Piacenza, Rimini, etc. Non c’è una squadra “regionale”. Questo significa bacini di tifosi molto più ristretti. Se in California, dove vivono 40 milioni di persone, ci sono 3 squadre NFL (Oakland, San Diego e San Francisco) le potenzialità di ricavi sul bacino, da merchandising a ticketing sono infinitamente superiori. La maggior parte delle squadre di calcio ha bacini troppo piccoli e può avere ricavi consistenti solo lato diritti tv.L’altro grande pilastro dello “spirito del gioco” è la “democrazia sportiva”. Una piramide mobile dalle serie minori alla massima serie con numerose retrocessioni e promozioni ogni anno. Ogni tifoso, in ogni città, può sognare che il suo club un giorno sia il Verona di Bagnoli o Leicester di Ranieri o il Parma che va a vincere la Coppa delle Coppe con un gol di Stefano Cuoghi a Wembley.
Questo è sempre stato il fascino storico del football.
Il paradosso dei paradossi è che con l’aumento dei ricavi televisivi degli ultimi 20 anni, che ha fatto esplodere ingaggi e commissioni rendendo tutto più “grande” di un ordine di grandezza, i 2 pilastri dello spirito del gioco (local teams e democrazia sportiva) sono andati in conflitto con le esigenze di pianificazione di ricavi a lungo termine, che sono la base di una sostenibilità di un business. Se andare in Champions o una retrocessione spostano 50 o 100 milioni è dura ragionare a 10-20 anni come fa un investitore di lungo periodo. Da qui il “clash” degli ultimi anni, tra progetti di Superlega Europea, la nascita della Superlega Saudita, i progetti di riforma dei campionati. E’ molto difficile poter prevedere come finirà, anche se è facile prevedere che nel medio-lungo periodo i club maggiori generanno più profitti e meno perdite. Se la vedi dal punto di vista degli owner è abbastanza paradossale che i Dallas Cowboys guadagnino 500 milioni all’anno, mentre la Juventus se non mette 1 miliardo di denaro fresco in 3 anni salta per aria per non parlare di Real Madrid o Barcellona. Il paradosso è che nel mondo, ha molto più appeal Real – Liverpool che la partita dei Cowboys e prima o poi questa asimmetria tra interesse dell’audience e capacità di monetizzazione è destinata a ridursi.
In questo contesto, con il mercato finanziario che come sempre “scommette” sul futuro e cerca di anticipare le opportunità, il prezzo dei club negli ultimi anni in Europa è in rapida crescita. Oggi l’Enterprise Value (al lordo dei debiti) di una squadra di Serie A parte da un minimo di 100 milioni per arrivare a 1 miliardo. Sono numeri ancora piccoli rispetto allo sport americano, ma molto più grandi anche solo di 10 anni fa (in Italia i passaggi di proprietà avvenivano per valutazioni bassissime).
Se si aggiunge il fatto che la Serie A ha un appeal storico pazzesco, con alcuni dei club più vincenti d’Europa e che oggi è a “sconto” rispetto a UK, Spagna e altri Paesi, le future “riforme” del calcio, dovrebbero permettere al calcio italiano di avere un potenziale di crescita espansiva più alto di Paesi con un ciclo già più espanso (vedi Premier League 7 miliardi di ricavi vs 3 Serie A).
Quindi – teoricamente – investendo in un mercato depresso come la Serie A, un investitore straniero che guarda a 10 anni può “scommettere” che tra 10 anni i valori delle squadre saranno molto aumentati, sempre che la sua squadra sia riuscita a stare dalla parte giusta delle probabili riforme sportive e replicare quello che è successo nel basket NBA quando Paul Allen – socio storico di Bill Gates in Microsoft – comprò i Trailblazer per 70 milioni di dollari nel 1989. Gestì sportivamente male e spese un sacco di soldi nella gestione. Ma alla sua morte, nel 2018, il valore della franchigia era di cira 2,5 miliardi, per le dinamiche della NBA degli ultimi 30 anni.
Questo è a mio giudizio il “background” concettuale alla base degli investimenti in squadre italiane da parte di molti stranieri. Poi ovvio che ci sono una marea di differenze a livello individuale. Ci sono personaggi come Commisso o Saputo che hanno investito soldi su una cosa che “potenzialmente” tra 10 anni potrebbe non rivelarsi così stupida o da ricchi scemi. Ma lo hanno fatto anche perché erano italo-americani, appassionati di calcio, ricchi e si divertono ad avere una squadra italiana, a prescindere dal fatto che l’anno sbagliato gli costa 80 milioni. A questa tipologia di owner - faccio una cosa che di fatto mi fa bruciare cassa realizzando una mia libidine, ma i consulenti Ernst&Young dicono a mia moglie che forse tra 10 anni varrà pure un sacco di soldi - credo che ad oggi si possa ascrivere Krause.
Altri proprietari li vedo invece più “operativi” dal punto di vista finanziario/specultativo. E’ il caso di Cardinale, che fa questo di mestiere. Si è fatto prestare centinaia di milioni da Elliott per il Milan e lo vuole rivendere nel più breve tempo possibile con il più alto margine possibile, approfittando delle dinamiche in crescita.
Quindi la risposta alla tua domanda è no. Non sono tutti pazzi.
Ci sono dinamiche economiche globali di lungo periodo che teoricamente giustificano investimenti nel calcio, anche in Italia. Ma lo scenario a breve è di grosse perdite operative. Devi quindi avere spalle molto larghe, orizzonti di investimento molto lunghi e una enorme propensione al rischio. Visto che nessuno sa quali forme prenderanno quelle inevitabili “riforme” necessarie per trasformare l’enorme potenzialità economica del calcio in modelli economicamente sostenibili per i club.